martedì 26 marzo 2019

Recensione. "I frutti del vento", di Tracy Chevalier. Grossolano e irritante.

Buongiorno lettori, perdonate la poca costanza di questo mese ma sono reduce da alcune settimane di stravolgimenti professionali. Tuttavia, nonostante i tempi stretti, mi sono ritagliata il tempo per parlarvi dei libri letti negli ultimi giorni. 

Iniziando da quello più spiacevole, "I frutti del vento" di Tracy Chevalier; senza rubarvi troppo tempo, ma dopotutto non posso segnalarvi solo le belle letture, fa parte del mio dovere anche mettervi in guardia dalla mediocrità!


Trama:

Nella prima metà del XIX secolo James e Sadie Goodenough giungono nella Palude Nera dell'Ohio dopo aver abbandonato la fattoria dei Goodenough nel Connecticut. La legge dell'Ohio prevede che un colono possa fare sua la terra se riesce a piantarvi un frutteto di almeno cinquanta alberi. Una sfida irresistibile per James Goodenough che ama gli alberi più di ogni altra cosa, poiché gli alberi durano e tutte le altre creature invece attraversano il mondo e se ne vanno in fretta. In quella terra, dove gli acquitrini si alternano alla selva più fitta, James pianta e cura con dedizione i suoi meli. Un frutteto che diventa la sua ossessione; la prova, ai suoi occhi, che la natura selvaggia della terra, con il suo groviglio di boschi e pantani, si può domare. La malaria si porta via cinque dei dieci figli dei Goodenough, ma James non piange, scava la fossa e li seppellisce. Si fa invece cupo e silenzioso quando deve buttare giù un albero. Finché, un giorno, la natura selvaggia non della terra, ma della moglie di James, Sadie, esplode e segna irrimediabilmente il destino dei Goodenough nella Palude Nera. Romanzo che si iscrive nella tradizione della grande narrativa americana di frontiera, "I frutti del vento" è un'opera in cui Tracy Chevalier penetra nel cuore arido, selvaggio e inaccessibile della natura e degli uomini, là dove crescono i frutti più ambiti e più dolci che sia dato cogliere.


La mia prima obiezione generale è che la trama in quarta di copertina è del tutto fuorviante. Insomma, mi aspettavo un romanzo intenso sulle difficoltà che una famiglia si trova a dover affrontare in un ambiente naturale ostile (e cosa c'è di più ostile di una Palude Nera per un coltivatore di alberi da frutto?) ma in realtà quello che sembrava il fulcro della storia è stato trasformato semplicisticamente dall'autrice in un pretesto per sviscerare un rapporto altamente conflittuale (definirlo conflitto è un eufemismo in questo caso) tra moglie e marito. 

James ama il suo frutteto più della moglie e dei figli, e Sadie, risentita da questo trattamento, si trasforma nella figura allegorica della moglie/madre degenere (vedi: sempre ubriaca, linguaggio oltraggioso, comportamenti depravati). Tre dei figli sopravvissuti alla malaria restano personaggi molto marginali, e i due figli più giovani sono presentati dalla giovinezza alla maturità attraverso connotati ripetitivi, che a lungo andare diventano snervanti.
Il libro procede su più piani temporali: la famiglia Goodenough nella primavera del 1838, mentre cerca di adattarsi al nuovo stile di vita; Robert, il figlio minore, che tra il 1838 e il 1856 viaggia attraverso l'America sempre diretto a ovest, in fuga dalla sua famiglia e con un terribile segreto racchiuso nel cuore; la famiglia Goodenough che nell'autunno del 1838 si disintegra in seguito a un evento raccapricciante; Martha, pochi anni più grande di Robert, che tra il 1844 e il 1856 cerca di mettersi in contatto con il fratellino perduto; il momento sentimentale di Martha e Robert che finalmente nel 1856 riescono a ricongiungersi dopo decenni di solitudine.
Se dovessi analizzare minuziosamente tutte le parti ne verrebbe fuori una lunghissima lista di difetti e punti deboli, ma, visto che all'inizio del post ho promesso uno stroncamento sbrigativo, mi limiterò alle cose che più mi hanno infastidito:

  • il senso del titolo tradotto in italiano, tipo "chi semina vento raccoglie... mele??"
  • il linguaggio grossolano e poco armonioso 
  • la volgarità linguistica e comportamentale di Sadie, che potevo capire se contestualizzata, invece l'ho trovata del tutto fuori luogo: esiste un ampio vocabolario italiano, bene, usiamolo senza scadere nella banalità delle brutte parole
  • dopo qualche capitolo ho pensato che il linguaggio grossolano fosse dovuto alla traduzione/edizione, soprattutto per via di un disgustoso errore grammaticale a pagina 90, terza riga dal basso: "No, quello è un cedro. Qui c'è ne sono molti".
  • romanzo americano di frontiera, ma dove?? Quella della corsa all'oro in California era una porzione di storia che faceva comodo all'autrice in quel momento, ma l'ha ridotta a un cumulo di cliché
  • la doppia ambientazione, con gli indizi concessi a piccole dosi, invece di rappresentare un'attrattiva, nel mio caso ha solo prolungato l'irritazione
  • i personaggi maschili di James e Robert, seppure con tutti gli sproloqui interiori del caso, non sono riusciti a trasmettermi il loro spassionato amore per gli alberi

Ho finito il libro solo per via della Challenge, e perché fino all'ultimo ho sperato che il finale potesse redimere le altre duecento pagine ma così non è stato. Peccato perché, dopo aver letto "La ragazza con l'orecchino di perla", da questa autrice mi aspettavo molto di più. 



Nessun commento:

Posta un commento