domenica 29 gennaio 2017

Irriverente e ironico, "L'assassino, il prete, il portiere" di Jonas Jonasson

Buonasera lettori, stasera vi parlo di un libro che mi ha divertito moltissimo. Dello stesso autore, dietro consiglio di una compare del GdL avevo già letto "L'analfabeta che sapeva contare" (qui la recensione), e quando ho notato che il nuovo libro era perfetto per un obiettivo della Hunting Word Challenge, ho pensato che l'occasione era troppo ghiotta per non essere sfruttata.


Trama:
Johan Andersson, conosciuto da tutti come Anders l’Assassino, è appena uscito di prigione e sbarca il lunario facendo piccoli lavori per i gangster della zona, e li farebbe anche bene se non fosse per il vizio di bere, che inizia a minacciare la sua professionalità. La sua vita subisce una svolta quando Anders incontra Johanna Kjellander, pastore della Chiesa protestante, e un portiere d’albergo (o meglio, di un bordello, appena diventato hotel con una stella). I tre decidono di formare una società basata sulle doti (e la reputazione) di Anders, mentre gli altri si occupano di trovare clienti, gestire le relazioni pubbliche e portare avanti nuove strategie di business. L’impresa funzionerebbe, se non fosse che la curiosità porta l’assassino a chiedersi il perché di ogni cosa e dopo qualche discussione con il pastore, decide di rivolgere le sue domande direttamente a Gesù che, del tutto inaspettatamente, gli risponde! Con la svolta religiosa di Anders, Johanna e Per capiscono che la società è in pericolo e devono elaborare un nuovo piano. In fretta. 




Per Persson, un nome che è un programma, portiere di un ex bordello trasformato in un'infima pensione, pieno di rancore nei confronti di suo nonno che ha sperperato milioni investendo in un settore che non ha retto al progresso, incontra Johan Andersson detto Anders l'Assassino che è appena uscito di prigione e ha deciso di non uccidere più nessuno. Il problema è che Anders non ha altri talenti all'infuori del picchiare le persone perciò, dopo aver conosciuto anche Johanna, una giovane donna costretta dal padre a perseguire la carriera ecclesiastica ma che si definisce atea e ha appena perso il lavoro di pastore nella chiesa, Per si trova suo malgrado coinvolto nell'inverosimile piano di creare una società che accetta di malmenare persone su commissione: Anders l'Assassino si occupa del lato pratico mentre Johanna gestisce le pubbliche relazioni e Per tiene la contabilità.

Per un certo periodo gli affari vanno a gonfie vele. Accade però che Anders l'Assassino inizia a porsi delle domande sulla religione, e dopo essersi fatto istruire dal pastore Johanna riguardo alla Bibbia, ai sacramenti e alla religione, si convince che Gesù l'ha chiamato a sé per illuminare il suo cammino e prendere la retta via. Per la società che incassa milioni di corone svedesi a commessa la decisione di Anders di cambiare rotta vorrebbe dire il collasso ma Johanna sa come sfruttare anche la svolta religiosa. Dopo una fuga rocambolesca su un camper rubato e con tutti i milioni incassati per "lavoretti" accettati ma non portati a termine da Anders, alla Svezia intera viene mostrato il nuovo volto di Anders l'Assassino: un benefattore che devolve in beneficenza tutti gli introiti illeciti della sua precedente attività, e, sebbene con alle calcagna tutta la masnada di malfattori rimasti scontenti dal mancato compimento delle loro precise richieste di braccia rotte, gambe fratturate, pestaggi e lesioni varie nei confronti di rivali nemici e debitori poco coscienziosi, il trio decide addirittura di istituire la Chiesa di Anders. Il nuovo pastore Anders, adesso, concede il sacramento della Comunione con fiumi di vino rosso moldavo importato illegalmente e cracker (leggi il sangue e il corpo di Cristo), e predicando la generosità convince i fedeli a versare ogni domenica centinaia di corone in beneficenza, di cui ben il novantaquattro per cento lo intascano i "bisognosi" Per e Johanna.

Neanche questa avventura durerà a lungo, complice l'invidia di un autonominatosi sagrestano non retribuito che, poco prima di morire per il fortuito caso di trovarsi nella traiettoria di una pallottola destinata al pastore Anders, aveva sollevato la dubbia questione della legalità della nuova Chiesa istituita con l'Agenzia del Fisco svedese. Il funzionario mandato dall'Agenzia delle Entrate troverà però solo un Anders ubriaco e impasticcato a sua insaputa da Per e Johanna, con dei fumetti al posto dei libri contabili, mentre questi due fuggono con il grosso del bottino. Ma non andranno lontano: i vecchi nemici della prima società rimasti delusi requisiscono in breve tutti i milioni di corone guadagnati tramite la Chiesa, ma almeno il portiere e il pastore hanno salva la vita mentre Anders l'Assassino viene incarcerato per una lunga lista di reati.

Qualche tempo dopo la coppia, che nel frattempo ha scoperto di odiare un po' meno il mondo in virtù del reciproco amore, sta per avere una bambina, ma entrambi sentono come un peso sul cuore per aver abbandonato Anders e la tasca un po' troppo alleggerita rispetto ai bei tempi della Chiesa. Sta prendendo forma un nuovo piano: Anders sta per essere rilasciato per buona condotta e stavolta a essere sfruttata sarà l'immagine di un Babbo Natale generoso: basandosi sul motto "dare per ricevere", un allegro Babbo Natale con una lunga barba vera impersonato da Anders l'Assassino, bussa alle porte di tutti i bisognosi per regalare soldi. Complice poi la pubblicità mediatica e un sito internet, da tutti i paesi del Nord Europa iniziano ad arrivare donazioni per aiutare il misterioso omone vestito di rosso a continuare a dare una speranza ai poveri e ai disadattati.
Il portafoglio di tutti comincia a gonfiarsi di nuovo a dismisura...


Questo libro ha un sacco di pregi, che non saprei da dove cominciare. E' scorrevole e si lascia leggere velocemente, è una lettura leggera eppure ricalca molti paradossi della cultura contemporanea facendo riflettere, è ironico e irriverente, con una sfilata di personaggi improbabili che vivono avventure altrettanto improbabili ed esilaranti. Devo ammettere con una punta di rammarico che non siamo ai livelli di "L'analfabeta che sapeva contare", che se non altro ha una trama molto più complessa e meglio congegnata e dei personaggi più delineati, ma l'umorismo di Jonasson è assolutamente contagioso. Ve lo consiglio vivamente come lettura frivola per impegnare qualche ora col sorriso sulle labbra.










giovedì 26 gennaio 2017

Gdl Librarsi: l'incontro di gennaio 2017

Ben ritrovati cari lettori! Ieri sera c'è stato l'incontro mensile del nostro GdL in biblioteca e come al solito vi parlo delle nostre impressioni su questo romanzo super conosciuto.



Trama:
Al principio del 1939 Heinrich Harrer, ex campione di sci e famoso alpinista austriaco, viene scelto per partecipare alla spedizione sul Nanga Parbat. Tornerà in patria solo dopo incredibili eventi: sarà internato in un campo di concentramento, evaderà più volte, riuscendo a penetrare in terre mai visitate da un occidentale e a fare amicizia con il giovane Dalai Lama; ma soprattutto conoscerà e sarà conquistato da una cultura antica e affascinante, di cui diventerà il paladino. Un'avventura al limite dell'incredibile - ma anche una testimonianza storica e umana sugli ultimi anni del Tibet indipendente, alla vigilia della drammatica invasione delle truppe cinesi.





Se non fosse accidentalmente rientrato tra gli obiettivi di una Challenge avrei molto probabilmente mollato questo libro molto prima di arrivare a metà. Heinrich Harrer racconta qui in prima persona la sua esperienza nel Tibet a stretto contatto con un popolo le cui abitudini sono perlopiù sconosciute e/o fraintese. Fin qui mi pare anche un dignitoso intento; peccato che, per stessa ammissione dell'autore nelle prime pagine, egli non sia propriamente un maestro nel narrare. E sorge spontanea una domanda: "Assumere un ghostwriter, nooo???"
Pazienza, chiudiamo gli occhi, annuiamo e proseguiamo.
Harrer si trova coinvolto nel bel mezzo dei contrasti della seconda guerra mondiale mentre, in compagnia di altri esperti scalatori, sta valutando gli accessi alla catena dell'Himalaia. Fugge quindi da un campo di concentramento indiano e insieme ad alcune persone inizia il calvario che dovrà condurlo nel neutrale Tibet, che all'epoca si rifiutava categoricamente di dare asilo agli stranieri, per timore che corrompessero in qualche modo il loro pacifico stile di vita.

Per buona metà del libro l'autore vorrebbe generare nel lettore un senso di smarrimento e di angoscia per il proprio destino, la fatica e gli ostacoli di un clima ostile nonostante il paesaggio mozzafiato, ma io non ho colto nessuna di queste emozioni, opinione condivisa dal resto del GdL. Sembra una coscienziosa e minuziosa sequela di avvenimenti senza il minimo pathos. Ma, come dicevo, mi sono obbligata a proseguire per il bene del mio punteggio nella Challenge. :D

Oltre la prima metà del libro, dopo numerose sofferenze causate nel lettore da una sintassi sconclusionata e confusionaria, la combriccola di alpinisti riesce finalmente a raggiungere la grande città di Lhasa, dove risiede il Dalai Lama. Qui, ad un tratto, nella descrizione delle usanze tibetane, della storia del paese, delle abitudini quotidiane e di quelle in occasione delle festività, della religione e di come questa si intrecci a doppio filo con il sistema politico e giuridico, l'autore svela finalmente una tecnica di scrittura non più così tanto noiosa, sebbene continui a saltellare avanti e indietro tra passato e presente, tra storia e superstizione, tra medicina occidentale moderna e bislacchi rimedi spirituali, disorientando il lettore.

Verso la fine, nel raccontare il suo esclusivo rapporto di amicizia con il giovanissimo e geniale Dalai Lama, Harrer mostra finalmente un po' di sana emozione, soprattutto nel momento in cui si vede costretto dall'invasione della Cina a dire addio a un paese che lo ha accolto, contro tutti i pronostici, per sette anni.
Abbiamo trovato interessante venire a conoscenza dei costumi di  un popolo di cui sapevamo davvero poco. Ma lo stile di Harrer ha compromesso tutto quello che si poteva trarre di buono dalla sua esperienza per farne un libro di pregio. Adesso siamo curiose di guardare il film (e non solo per quello gnocco di Brad Pitt, maligne!), perché credo che guardare su schermo i paesaggi descritti nel libro possa sopperire alle varie lacune del libro.




Per l'occasione  mi sarebbe piaciuto provare lo tsampa, il piatto nazionale tipico tibetano, ma purtroppo su internet non si trovano ricette approfondite, quindi per questa volta, mantenendoci nello stile di una parca e modesta dieta orientale, abbiamo pasteggiato con focaccia al burro senza condimento e thé nero amaro.






La mia personale conclusione è che non vi consiglio questo libro, a meno che non siate masochiste, oppure di prenderlo per quello che è: un disperato tentativo da dilettante (e aggiungerei un tantino presuntuoso) con le migliori intenzioni ma la minima resa.








domenica 22 gennaio 2017

Angosciante e intenso, "Scomparsa" di Chevy Stevens

Ben ritrovati lettori, la seconda recensione del giorno riguarda una sorpresa inaspettatamente piacevole. Il libro in questione mi è stato assegnato come obiettivo per la Challenge La Ruota delle Letture e a dire il vero a tutta prima la trama non è che mi entusiasmasse poi tanto..


Trama:
È una mattina d'estate qualunque per la giovane agente immobiliare Annie O'Sullivan. Quel giorno, le sue uniche preoccupazioni sono l'ennesima lite con la madre, l'open house da organizzare in una casa in vendita nel pomeriggio e la cena con Luke, il suo fidanzato. L'open house va per le lunghe, ma quando si presenta un potenziale acquirente dal sorriso gentile, Annie pensa che possa essere il suo giorno fortunato. Non è così. L'uomo le punta una pistola addosso e, dopo averla drogata, la chiude in un furgone. Al risveglio, Annie scopre di essere stata portata in una casa sperduta tra le montagne. Dove si trova? E chi è quell'uomo? Intrecciato con la storia dell'anno di prigionia che viene svelata durante gli incontri con la psichiatra - un secondo filo narrativo racconta l'incubo del ritorno dopo la liberazione: la lotta di Annie per ricomporre un'esistenza ormai spezzata, le ricerche della polizia per identificare il rapitore e il turbamento per la consapevolezza che questa esperienza, sebbene conclusa, è molto lontana dall'essere superata. Un thriller mozzafiato, una storia di paura e dolore, ma anche di sopravvivenza, della forza di raccontare e di esplorare i recessi più oscuri della psiche umana, dove la verità non sempre rende liberi.


Quando mi devo confrontare con un thriller il mio approccio per la maggior parte delle volte è di tipo scettico perché su questo genere in particolare sono piuttosto selettiva: per essere ben congegnato deve possedere dei requisiti imprescindibili. Ma la vera sorpresa di questo romanzo è che non si tratta semplicemente di un thriller.

Annie, dopo la sua mostruosa esperienza, è in cura da una psichiatra nel tentativo di rimettere insieme i pezzi della sua vita. Ed è alla dottoressa che racconta in prima persona la sua terribile e intima verità mentre parallelamente parla delle difficoltà che incontra nel riprendere una vita "normale". Prigioniera per un anno di un uomo, da lei semplicemente chiamato il Pazzo, in uno chalet sperduto in montagna, Annie ha dovuto subire un'insana e incontrollabile mania di controllo: seviziata, torturata psicologicamente e fisicamente, costretta a mangiare e andare in bagno esclusivamente in orari stabiliti da lui, indotta a una psicotica pulizia del corpo e della casa, e ripetutamente stuprata fino a rimanere incinta. Purtroppo la creatura che Annie partorisce si ammala nel giro di poche settimane, e il Pazzo non ha intenzione di muovere un dito per curarla, col risultato che la bambina muore lasciando l'ennesimo strazio nell'animo di Annie, che iniziava ad accarezzare l'idea della maternità come un'ancora di salvezza dallo squallore delle sue condizioni e dal tremendo pensiero di non essere mai più ritrovata. Tuttavia sarà proprio questa tragedia sconvolgente a darle il coraggio e la forza di ribellarsi al suo aguzzino e trovare la libertà.

L'orrore di questa storia, che ti entra dentro e ti stringe le viscere, è che ho passato tutto il tempo a pensare "se capitasse a me?". Perché di storie simili se ne sono sentite tante, molte si sono protratte per anni, qualcuna ha avuto finali ben più tragici per le sopravvissute. La tragedia della sua prigionia l'ho avvertita con lo stesso terrore della protagonista, mi sono impietosita per la sua tendenza alla cosiddetta Sindrome di Stoccolma, ho esultato per i suoi piccoli progressi nel ritorno alla normalità, e sono rimasta scioccata per il colpo di scena durante le indagini. Già, perché quando pensi che l'incubo sia finito ti sbagli: le indagini per scoprire l'identità del rapitore portano sempre a nuove domande la cui risposta è più agghiacciante di quanto potresti pensare.

Lo stile di scrittura è fluido e scorrevole e si lascia leggere velocemente, oltretutto l'alternarsi del racconto tra il passato e il presente tiene viva l'attenzione fino alla fine. I personaggi sono ben delineati nonostante vengano guardati solo dal punto di vista dell'io narrante, cioè Annie, e quindi non obiettivamente, ma parzialmente distorti dai suoi personali sentimenti. Ogni cosa è ben analizzata, il rapporto col fidanzato Luke, l'altalenante amicizia con Christina (che mi è sembrata con i suoi alti e bassi il genere di amicizia più sincera mai letta in un libro), il lutto giovanile e la nostalgia della sorella, il rapporto controverso con la madre, fanno di questo romanzo, più che un thriller, un riuscitissimo e verosimile resoconto del tormento interiore di una superstite che cerca disperatamente di uscire dal ruolo di vittima e di riprendere le abitudini di una vita sana e normale, come mangiare ogni volta che ha fame, andare in bagno quando c'è veramente lo stimolo, sentirsi al sicuro in casa propria senza dover sbarrare porte e finestre, dormire nel proprio letto senza sobbalzare a ogni rumore.

Probabilmente non è un libro per chiunque, perché le emozioni sono intense e angoscianti per la maggior parte delle pagine, ma ve lo consiglio vivamente.
Una volta chiuso il libro, poi, fate come me: fissate per qualche istante la copertina, guardate quelle forbici arrugginite che tagliano l'ala di una farfalla. Una bellissima metafora della tragedia familiare che si svela alla fine.










Catapultata direttamente tra la "Gente di Dublino" di James Joyce

Buongiorno lettori, le ultime due settimane sono state per me intense di letture e oggi riesco a dedicare qualche oretta a parlarvi dei due libri scelti per gli attuali obiettivi della Challenge La ruota delle letture, iniziando da una raccolta di racconti..


Trama:
Considerati tra i capolavori della letteratura del Novecento, questi quindici racconti - terminati nel 1906 ma pubblicati soltanto nel 1914 perché per la loro audacia e realismo gli editori li rifiutarono - compongono un mosaico unitario che rappresenta le tappe fondamentali della vita umana: l'infanzia, l'adolescenza, la maturità, la vecchiaia, la morte. Fa da cornice a queste vicende la magica capitale d'Irlanda, Dublino, con la sua aria vecchiotta, le birrerie fumose, il vento freddo che spazza le strade, i suoi bizzarri abitanti. Una città che, agli occhi e al cuore di Joyce, è in po' il precipitato di tutte le città occidentali del nostro secolo.



"Dubliners" di Joyce era nella mia libreria da un po' ormai e attendeva paziente il suo turno, e quale occasione migliore di questa. Io sono sempre stata molto affascinata dalle ambientazioni nordeuropee e britanniche, dai personaggi e dai paesaggi e, complice una tradizione letteraria di tutto rispetto, nutrivo grandi aspettative su questo libro. In realtà però, sono riuscita a cogliere la bellezza di questa raccolta solo verso la fine.

Lo scopo dell'autore era quello di dare una rappresentazione della comune vita quotidiana di Dublino, mostrando vizi e virtù dei personaggi delle più svariate età e classi sociali. Sarà che non sono mai stata troppo "una da racconti" ma dopo i primi due o tre la mia impressione generale era di qualcosa di potenzialmente interessante troncato sul più bello. Il che, a seconda dei punti di vista, può essere il punto di forza o la debolezza di una raccolta di racconti: perché nel limite dato da quelle poche paginette l'autore può (o non può) darti un tot di informazioni sui personaggi e sul "prima" e sul "dopo" e il resto devi immaginarlo da te.

In questi quindici racconti Joyce esplora l'animo umano in varie tappe dell'età, portando alla luce tutto il buono e il cattivo che caratterizza l'esistenza: l'istintiva ribellione dell'infanzia, l'ardita ambizione della giovinezza, i primi casti amori giovanili, l'avvilimento e l'umiliazione sul luogo di lavoro, il bisogno di evasione da una comunità provinciale verso le dorate promesse delle grandi città europee, l'ambiguo legame con la supersitizione irlandese, l'alto valore dell'amicizia e della religiosità, il prezioso senso della dignità e un vile attaccamento al denaro e alla casta, nonché in diverse occasioni l'analisi spietata della condizione sociale e politica dell'epoca.

Come dicevo, al principio arrivare alla fine di ogni racconto mi dava la sensazione di essere davanti a un arto amputato. In realtà, poi, col procedere della lettura mi si è chiarita la visione d'insieme e ho apprezzato molto l'intento dell'autore.
Il susseguirsi dei racconti secondo l'aumentare dell'età dei protagonisti, la vaga sensazione che i personaggi dei vari racconti fossero in qualche modo legati l'uno con l'altro (per classe sociale, mestiere, o addirittura parentela e stessa cerchia di conoscenze), ma soprattutto lo stile di Joyce mi hanno dato infine un'ottima impressione.
Dublino è resa affascinante tanto quanto altre città britanniche che ho adorato in altre storie, con i suoi palazzi fatiscenti, le botteghe e i pub che odorano di muffa, le case con il camino acceso, i teatri dell'Opera che risplendono di lusso, le carrozze lungo le strade illuminate e affollate. I personaggi sono tutti ben delineati, ma ciò che più mi ha colpito è la sensazione di essere catapultati direttamente sulla scena. Non saprei come spiegarlo meglio, ma la capacità dell'autore è sorprendente; è come origliare da una finestra aperta nel bel mezzo di una conversazione, o seguire due persone da metà del loro tragitto in poi, senza sapere cosa è stato detto e fatto e prima e senza poter conoscere il dopo, semplicemente cogliere sprazzi e spezzoni di vite che racchiudono la completa essenza dei protagonisti: una sensazione stupefacente.

Per questo, anche se non amate il genere del realismo e del naturalismo di inizio Novecento e anche se, come me, non siete esattamente "tipi da racconti", io vi consiglio assolutamente questo libro.





domenica 8 gennaio 2017

Idea regalo fai-da-te: portagioie e portasigarette

Buonasera lettori, le ultime settimane sono state abbastanza frenetiche nonostante qualche giorno di ferie natalizie, però ci tenevo a mostrarvi alcuni dei miei lavoretti che ho regalato a Natale, perché anche quest'anno non ho fatto acquisti ma ho fatto a mano tutti i regali (pochi a dire il vero).

Visto che ultimamente mi sono innamorata della tecnica della carta pesta e ho notato che è molto versatile per creare diverse cose, ho pensato di fare un portagioie e due portasigarette (due amiche che fumano si lamentano sempre dei nuovi manifesti di morte sui pacchetti di sigarette e non sapevano più come fare a evitare di averli sempre sotto gli occhi).



Il procedimento è semplice, come avevo già fatto per il portacorrispondenza, ho ritagliato pezzi di cartone abbastanza spesso per lo "scheletro".




Poi li ho incollati...









E infine li ho rivestiti con tovaglioli colorati
 e spennellati di colla vinilica e acqua.
A intervalli di 24 ore ho ripetuto tre volte
la copertura finché la struttura è diventata
rigida e resistente.



















Ho preso uno di quei tappetini di bambù che si
 trovano nei negozietti di chincaglierie, l'ho
decorato con cuoricini usando le tempere e una
formina da cucina, e l'ho incollato alla scatola,
da sotto fino alla striscia posteriore, lasciando
libera la parte superiore.










Sul davanti della scatola ho fatto un foro in cui
far passare un laccetto argentato in cui ho infilato
due perline recuperate da vecchi bracciali, e ho
annodato all'interno il laccetto.
Un altro laccetto uguale l'ho fato passare tra due
canne di bambù del tappetino, in corrispondenza
del laccetto della scatola, e ho annodato anche
quello all'interno.










A lavoro ultimato ho spennellato i cuoricini
di colla vinilica e ci ho versato sopra la
porporina rossa. Una volta asciugata anche la
porporina ho spruzzato su tutta la superficie
esterna uno spray incolore che fissa e lucida.
Ed ecco fatto il portagioie.






Per quanto riguarda i due portasigarette,
invece, una volta asciugata la carta pesta mi
sono limitata a decorarli usando quello che
avevo in casa.
Uno l'ho ridipinto di nero, ho preso un pezzo di
feltro fucsia, l'ho decorato con pezzi di un orecchino di plastica, l'ho incollato sulla parte posteriore, e per aprirlo e chiuderlo comodamente, sul davanti l'ho fissato con un quadratino di velcro.


L'altro l'ho decorato di cuoricini con lo stesso
metodo usato per il portagioie. Ho preso un pezzo di moosgummi rosso, l'ho decorato lungo tutti i lati con un nastrino da pacchi natalizio e sul davanti con un fiore di plastica staccato da un orecchino, l'ho incollato anche qui sul lato posteriore e fissato davanti con un pezzetto di velcro.

Ed ecco i portasigarette glamour. :)

sabato 7 gennaio 2017

Un esempio di inciviltà, "La lettera scarlatta" di Nathaniel Hawthorne

Ben ritrovati lettori in questo ultimo weekend prima della normale ripresa della routine post natalizia. Oggi vi parlo di un grande classico della letteratura americana, che casca a fagiuolo per le due Challenge a cui ho deciso di partecipare, la Hunting Word Challenge e La Ruota delle Letture.



Trama:
Ambientato nel New England puritano nel XVII secolo, il romanzo racconta la storia di Hester Prynne, una donna che, dopo aver dato alla luce una bimba, frutto di una relazione adulterina, rifiuta di rivelare chi è il padre e lotta per crearsi una nuova vita di pentimento e dignità. La lettera scarlatta è la A che per punizione ogni adultera deve portare cucita sul petto e che "marchia" in modo indelebile le azioni e la coscienza della protagonista, stretta in un patologico triangolo con il marito e con l'antico seduttore in un crescendo di tensione, sofferenza, angoscia






La scelta dell'immagine del libro non è casuale: si tratta proprio dell'edizione del 1968 di F.lli Fabbri Editori che possiedo, ricevuta in dono pareeeecchi anni fa e che mia madre aveva letto da ragazza. Il fatto di rileggere questo libro ha un po' influenzato la mia lettura anche se  non mi ha tolto il piacere di gustare questo ottimo romanzo.

La storia è piuttosto nota, ormai, avendo ispirato più di un film o sceneggiato., ma vi rinfresco la memoria. La narrazione si apre sulla piazza del mercato e la prigione, da cui esce Hester Prynne con in braccio la sua creatura nata da una relazione adulterina: suo marito infatti, il rinomato medico e studioso sempre in viaggio per le sue ricerche, nei due anni passati da quando Hester ha messo piede per la prima volta a Boston non è mai stato visto. Hester si rifiuta ostinatamente di rivelare l'identità del padre della creatura e, data l'attenuante dell'assenza del marito tanto prolungata da crederlo morto, la giustizia cittadina si "limita" a obbligare la donna a portare vita natural durante una grossa A (che sta per adultera) di stoffa rossa cucita sul petto.

Messa sulla piattaforma della gogna ed esposta al pubblico ludibrio per alcune ore come esempio per i peccatori, Hester nota tra il pubblico una figura familiare: suo marito, dato per morto, è tornato a Boston. Il contegno dell'uomo, dopo essersi fatto spiegare da un vicino la colpa di Hester, rimane però dignitoso e distaccato dalla figura che sul palco sta subendo lo sguardo e i commenti dei cittadini scandalizzati. Come lui stesso spiega più tardi a Hester nella cella in cui lei deve rimanere per qualche giorno, non ha intenzione di farsi conoscere col suo vero nome e patire il pubblico disonore: d'ora in poi lui sarà conosciuto come il medico Roger Chillingworth e il suo unico scopo di vita sarà scoprire l'identità di colui che ha disonorato il suo matrimonio e avere la sua vendetta. Hester, per il bene di colui che segretamente ama e sperando di sollevarlo da un'angoscia simile alla sua, accetta di mantenere il silenzio sulla vera identità di Roger Chillingworth. Da questo punto in poi il libro sorvola velocemente sugli anni che passano e, più che un'accurata narrazione di eventi e dialoghi, diventa una sottile e arguta analisi dell'angoscia, del peccato, della colpa.

Da un lato Hester Prynne vive la sua condanna con un senso di pacifico fatalismo, seppellendo la sua femminilità e la sua grazia dietro quell'unico simbolo infamante che la rappresenta nella società e che la rende una reietta, mentre cerca di crescere sua figlia Pearl nel massimo rispetto delle leggi sociali e religiose, si guadagna il pane onestamente col lavoro del cucito e fa beneficenza per i poveri e i moribondi. D'altro canto l'aspetto esteriore di Roger Chillingworth, nei suoi intenti per nulla dettati dalla misericordia, viene trasfigurato completamente dalla sua influenza malefica, accentuando le rughe, la deformità delle spalle, la malignità nello sguardo, e dandogli un sorriso raccapricciante. Dopo pochi capitoli il lettore viene infatti a conoscenza del fatto che il padre della piccola Pearl è Arthur Dimmesdale, uno stimato pastore della cittadina, divorato dal senso di colpa: anche in lui l'aspetto esteriore porta i segni del rimorso; per questo Chillingworth, con la scusa di curarlo da una malattia non ben definita, non fa che aumentare il suo malessere con la sua eterna presenza, che il reverendo, tanto sensibile per natura, avverte come diabolica senza riuscire a spiegarsene il motivo.

Questo romanzo, che per decenni dopo la pubblicazione ha tanto scandalizzato l'opinione pubblica per il semplice motivo di trattare l'adulterio e per di più commesso da un uomo di Chiesa, io l'ho trovato piuttosto una denuncia della morale puritana al tempo delle prime colonie inglesi in America. Infatti, come lo stesso autore sottolinea negli ultimi capitoli, nelle nuove colonie i personaggi di spicco sociale come il governatore e i magistrati, si auto conferivano un'autorità smisurata e imponevano una rigida morale, rinnegavano lo sfarzo che contraddistingueva invece la vecchia cara Londra e facevano calare su tutto ciò che faceva parte della normale vita quotidiana un grigiore e una malinconia senza pari.

Lo stile narrativo è complesso, come si addice a un qualunque scrittore del diciannovesimo secolo, e probabilmente le descrizioni della piccola Pearl sono un po' troppo intrise di superstizione, caratterizzandola con un'intelligenza e un'arguzia che una bimbetta di sette anni non potrebbe avere. Tuttavia non si può non simpatizzare con Hester per la sua pena, come non si può non provare irritazione per la vigliaccheria di padre Dimmesdale e repulsione per Chillingworth.

Non vi svelo altro della trama perché vi rovinerei il finale ma quello che mi è rimasto di questo romanzo è un'immensa malinconia per quello che erano costrette a subire le donne, ma anche gli amanti illegittimi, in una società tanto rozza, dove la legge degli uomini invariabilmente era sottomessa a una male interpretata legge divina.
















venerdì 6 gennaio 2017

Tra kilt e cornamuse, "La straniera" di Diana Gabaldon

Buonasera lettori! Sono appena riemersa da una full immersion di cinque giorni nella Scozia del diciassettesimo secolo e devo proprio spifferarvi fresche fresche le mie sensazioni su questo libro (e non solo perché il tempo limite per gli obiettivi stringe!) ;)



Trama:
Nel 1945 Claire Randall, un'infermiera militare, si riunisce al marito alla fine della guerra in una sorta di seconda luna di miele nelle Highland scozzesi. Durante una passeggiata la giovane donna attraversa uno dei cerchi di pietre antiche che si trovano in quelle zone. All'improvviso si trova proiettata indietro nel tempo, di colpo straniera in una Scozia dilaniata dalla guerra e dai conflitti tra i clan nell'anno del Signore 1743. Catapultata nel passato da forze che non capisce, Claire si trova coinvolta in intrighi e pericoli che mettono a rischio la sua stessa vita e il suo cuore.






Posso dirvi che quando si è trattato di scegliere un romanzo che avesse ispirato una serie tv per la Challenge, questo libro non era proprio la mia prima scelta ma mi sono dovuta accontentare di quello che offriva in quel momento la biblioteca comunale. Tuttavia proseguendo nella lettura ho potuto ben comprendere come mai la saga si adatta bene al meccanismo cinematografico.

Il mattone di 800 pagine che mi trovavo tra le mani a tutta prima mi lasciava un po' perplessa avendo una trama fondamentalmente piuttosto semplice. ERRORE! Perché se devo riconoscere un pregio a Diana Gabaldon è la potente forza evocatrice delle descrizioni dei paesaggi delle Highlands scozzesi, che occupano buona parte del libro. E fin qui ci sta, perché io amo particolarmente le descrizioni delle terre incontaminate e sotto sotto fremevo di invidia nei confronti di Claire perché non mi dispiacerebbe fare un'esperienza in qualche landa verde e lussureggiante senza i comfort del nostro secolo.

Peccato che per me i pregi di questo libro finiscono qui. Claire non è presentata come la solita eroina dei romanzi rosa, è una donna del ventesimo secolo che non si lascia sopraffare dagli eventi, dal destino e soprattutto non da un clan di barbari armati di asce, nemmeno se tra di loro c'è l'uomo a cui alla fine si affeziona particolarmente. E' stata un'infermiera di guerra, ha visto e vissuto sulla pelle la crudeltà degli uomini, sa essere arguta, previdente, intraprendente e coraggiosa...
Si, vi piacerebbe! Anche lei a un certo punto cede, vuoi per amore, vuoi per adattarsi all'ambiente in cui, suo malgrado, viene a trovarsi. I suoi tormenti interiori mentre si dibatte nel tentativo di scegliere se tornare da suo marito nel 1943 o se rimanere al fianco di Jamie  mi hanno quasi nauseato; non è una che sa quello che vuole e come ottenerlo, come vorrebbero farvi credere: alla fine anche lei subisce il fascino del suo eroe e diventa tutta sospiri, sussurri, paroline e svenimenti.

Dall'altro lato del cuore troviamo l'EROE per antonomasia, perché Jamie, sebbene squattrinato e ricercato dall'esercito inglese, è bello, possente, galante, fondamentalmente timido e romantico, eppure virile, vigoroso, un appassionato amante.. Insomma, dai, il Christian Grey delle campagne scozzesi, l'uomo costruito ad arte per far sospirare le femmine, e solo una donna poteva concepire un eroe così.

Ora mettete insieme i due pezzi del cuore e da metà libro in poi avrete una pagina di sesso&sospiri ogni tre con contorno di vivide descrizioni dell'anatomia dei personaggi, intervallati qua e là da litigi feroci in cui la donna del XX secolo vuole prevalere fisicamente e psicologicamente su un uomo per cui il concetto di autorità maschile su moglie/madre/sorella/donna in generale è pari a quello di un cavernicolo (quelli mi hanno fatto sorridere perché molto somiglianti a quelli che avvengono in casa mia). Queste scene si alternano a nozioni di botanica ed erboristeria, cruenti combattimenti corpo a corpo, cene luculliane da venti portate, processi per stregoneria, stupri a sfondo omosessuale, e in linea generale numerosi colpi di scena, senza i quali probabilmente avrei dato un taglio al libro molto prima di arrivare in fondo.

La mia conclusione è che sono curiosa di vedere la serie tv perché in fin dei conti l'idea di base del romanzo mi entusiasma abbastanza, perché così si può sorvolare sulle cose superflue e vederle filmate con conseguente limitata perdita di tempo, e, cosa assolutamente da non sottovalutare, perché l'attore che interpreta Jamie è proprio un bel vedere (date un'occhiata qui).
Ma credo proprio che mi esimerò dal prolungare il martirio leggendo tutto il resto della saga (16 libri con questo andazzo, ma vi pare??)

Come sempre, sono curiosa di sentire altre opinioni. :)