domenica 19 maggio 2019

Recensione. "Oltre l'inverno" di Isabel Allende. Il crollo di un mito.

Buongiorno lettori, oggi vi parlo brevemente di un libro che ho corteggiato a lungo ma di cui ho sempre rimandato la lettura per timore di una grande delusione. Avevo ragione. Io ho amato tutti i romanzi di Isabel Allende dei suoi primi trent'anni di carriera, da La casa degli spiriti a Ritratto in Seppia, da Eva Luna a Inès dell'anima mia. Poi, all'improvviso, c'è stato un brusco calo di qualità, prima con Il gioco di Ripper, poi con L'amante giapponese
Mi sono detta "Le do un'altra chance, leggo Oltre l'inverno". Che errore madornale, il mio mito è definitivamente crollato


Trama:

Lucía, cilena espatriata in Canada negli anni del brutale insediamento di Pinochet, ha una storia segnata da profonde cicatrici: la sparizione del fratello all'inizio del regime, un matrimonio fallito, una battaglia contro il cancro, ma ha anche una figlia indipendente e vitale e molta voglia di lasciarsi alle spalle l'inverno. E quando arriva a Brooklyn per un semestre come visiting professor si predispone con saggezza a godere della vita. Richard è un professore universitario spigoloso e appartato. Anche a lui la vita ha lasciato profonde ferite, inutilmente annegate nell'alcol e ora lenite solo dal ferreo autocontrollo con cui gestisce la sua solitudine; la morte di due figli e il suicidio della moglie l'hanno anestetizzato, ma la scossa che gli darà la fresca e spontanea vitalità di Lucía restituirà un senso alla sua esistenza. La giovanissima Evelyn è dovuta fuggire dal Guatemala dove era diventata l'obiettivo di pericolose gang criminali. Arrivata avventurosamente negli Stati Uniti, trova impiego presso una facoltosa famiglia dagli equilibri particolarmente violenti: un figlio disabile rifiutato dal padre, una madre vittima di abusi da parte del marito e alcolizzata, un padre coinvolto in loschi traffici. Un incidente d'auto e il ritrovamento di un cadavere nel bagagliaio della macchina che saranno costretti a far sparire uniranno i destini dei tre protagonisti per alcuni lunghi giorni in cui si scatena una memorabile tempesta di neve che li terrà sotto assedio.


La vicenda che ha luogo a Brooklyn, il tamponamento, la neve, l'elemento "thriller", sono solo il pretesto narrativo per rivangare nelle memorie dei tre protagonisti, Evelyn, Richard e Lucìa. 
I tre personaggi non potrebbero essere più diversi tra loro, eppure ad accomunarli c'è un passato di disordini sociali, lutti, perdite, migrazione e sofferenze.
Tutti temi cari a Isabel Allende, che nel fiore della sua carriera ha saputo sviscerarli creando una magia narrativa unica nel suo genere. Ho ritrovato anche qui personaggi di un certo spessore emotivo, una narrazione lenta e coinvolgente, la passione e la vitalità che hanno sempre contraddistinto i protagonisti delle sue storie senza mai cadere nel sentimentalismo stucchevole.
Ma, e non sapete quanto mi dispiace dirlo, siamo ben lontani dalla commozione che ho provato leggendo le sue prime opere.
Credo che a rovinare l'atmosfera che è sempre stata bravissima a creare sia l'inserimento dell'elemento noir che, a parer mio, non è proprio nelle sue corde.
In questo romanzo ci sono qua e là scene di grande effetto, sia tra le memorie dei protagonisti sia all'interno della narrazione al presente, ma sono condensate in poche pagine e non emergono abbastanza rispetto allo snodarsi della trama.
I richiami alla situazione sociale e politica americana, alla xenofobia, al traffico illegale che fa da contorno all'immigrazione clandestina, non mi hanno coinvolto, non mi hanno fatto provare empatia con i personaggi; in alcuni punti del libro mi sono sembrati dei vuoti narrativi colmati da informazioni sciorinate alla maniera di un volantino elettorale.
Non so quale demone l'abbia lusingata a farsi trascinare dalla moda dei gialli, ma preferirei che tornasse a raccontare dell'America Latina con quel realismo magico che è il suo marchio di fabbrica.


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